C’è una data che ha un’importanza capitale per gli sviluppi successivi della guerra a Genova e nel Levante: il 29 giugno 1944 un raid di ben ventotto aerei abbatte quattro arcate del ponte ferroviario di Recco, tagliando finalmente i collegamenti tra il capoluogo e il grosso dell’esercito tedesco che sta risalendo verso il Nord Italia, sospinto dall’avanzata degli alleati. E’ una svolta fondamentale sotto il profilo strategico, in quanto il comando nazifascista in Liguria è sempre più in difficoltà nell’affrontare le formazioni partigiane, sempre più attive. Non solo sulle montagne, ma anche nelle città, dove il proselitismo nelle fabbriche si allarga nonostante i diktat prefettizi e la violenta repressione: appena due settimane prima, il 16 giugno, dopo una serie di scioperi, quasi duemila operai vengono rastrellati negli stabilimenti del ponente genovese e deportati in campi di concentramento dai quali pochi torneranno. Ma è anche la fine di un incubo per i diecimila abitanti della città di Recco, sottoposta a una serie di bombardamenti che l’hanno praticamente rasa al suolo, visto che solo il quattro per cento delle case si è salvato. Raid che avevano l’unico scopo di abbattere il ponte ferroviario, impresa riuscita soltanto dopo otto mesi di tentativi.
La linea ferroviaria era stata realizzata poco dopo l’unità d’Italia del 1861, anche se solo nel 1922 era stato concluso il nuovo viadotto, lungo quasi quattrocento metri, alto venti, che tre anni dopo sarebbe stato elettrificato e che con i suoi tre binari sarebbe diventato l’impianto principale le traffico tra Genova e Sestri Levante: la ristrutturazione consentì alla stazione di Recco di diventare un importantissimo snodo nel collegamento tra Genova e Roma. Una struttura che doveva essere adeguatamente difesa dalla terra, dal cielo e dal mare con bunker, casematte e un sistema di mine. Come avrebbe ricordato molti anni dopo Carla Gambarelli, abitante di San Rocco di Camogli in una pubblicazione curata dall’Area Marina Protetta di Portofino, <gli operai impegnati nella costruzione delle difese dormivano nelle baracche e nelle tende vicino alla Mortola, dove cominciava il sentiero che porta alla Mesana e alle batterie. Mi ricordo anche i bombardamenti sulla città: prima passava “Pippetto”, il ricognitore, poi vedevo la pioggia di bombe sopra Recco mentre stavamo nascosti sotto gli alberi di olivo>.
Le esercitazioni dei soldati tedeschi erano quotidiane. A Punta Chiappa, verso le 17, dalle finestre dell’albergo Stella Maris occupato, i militari sparavano all’impazzata verso il mare contro un nemico invisibile, avendo a disposizione una gran quantità di munizioni. Ben più complesse quelle con i cannoni antinave da 152 mm. posizionati nelle tre casematte sovrastanti Punta Chiappa. Per permettere ai cannoni di sparare ad un bersaglio che potesse realmente consentire al personale addetto al pezzo d’artiglieria, di perfezionare la capacità di colpire un obiettivo al largo, era necessario rimorchiare una zattera sulla quale veniva posizionato un bersaglio. Si trattava di una specie di vela di colore bianco, sufficientemente visibile a distanza. Su una delle batterie era stato anche sistemato un telemetro, come avrebbe ricordato Davide Maggiolo, un abitante di San Rocco di Camogli: “Alle Batterie qualche volta mi hanno fatto guardare dal telemetro che c’era sopra la casamatta. Era uno strumento lungo e permetteva di vedere lontano. Si vedevano addirittura le case di Genova con i panni stesi alle finestre!”. Oggi di quel terribile periodo rimangono solo, all’interno del Parco Regionale di Portofino, resti delle costruzioni dove erano alloggiate le truppe e i cannoni dell’antiaerea.
Un imponente sbarramento antisbarco e antisommergibile fu contemporaneamente realizzato intorno al Promontorio di Portofino. Le mine impiegate erano tipo “Bollo” (peso della carica 145 kg.) ed “Elia” (peso della carica tra 120 e 130 kg.), dal nome degli ideatori. Venivano ancorate al fondale marino. Il sistema consentiva di stabilire in anticipo, prima della messa in mare, la quota a cui doveva trovarsi l’involucro esplosivo. La sfera contenente la carica era collegata mediante un cavo metallico ad un carrello appesantito che fissava al fondo tutta la struttura. Se veniva realizzato uno sbarramento antinave, le mine ad urto venivano posizionate ad una profondità indicativa di 3-4 metri dalla superficie. Se veniva realizzato uno sbarramento antisommergibile venivano posizionate a otto metri.
L’importanza strategica del ponte ferroviario viene ovviamente subito rilevata dal Comando alleato che decide per il suo abbattimento. Il primo bombardamento è del 10 novembre 1943. Poco dopo le 22 una squadriglia della Royal Air Force britannica, approfittando della luna piena, bombarda il ponte, danneggiandolo. Quindici giorni più tardi il secondo raid, ben più pesante, in quanto sono diverse squadriglie americane a bombardare a tappeto la città, distruggendo la città, mentre il ponte viene solo in parte danneggiato. E ancora il 27 dicembre più di venti bombardieri “Wellington” della North African Air Force scaricano su Recco più di quaranta tonnellate di bombe in un bombardamento a tappeto che devasta il centro, distruggendo chiese, strade, il Comune e l’ospedale, ma danneggia solo parzialmente il ponte. Con la linea ferroviaria che viene ripristinata infatti appena due settimane più tardi. Nelle settimane e nei mesi che seguono si ripetono gli attacchi, per più di venti volte, ma la linea ferroviaria in un modo o nell’altro viene sempre ripristinata. Fino al 29 giugno 1944, quando una squadriglia di ventotto aerei abbatte definitivamente il ponte. Per il suo sacrificio, nel 1993 la città di Recco è stata insignita della medaglia d’oro al valor civile.