Questa è la storia di Stefano. Ma potrebbe essere quella di Mario, o Giovanni, Andrea o Luigi. Insomma, di un qualunque ragazzo nato negli anni Venti del secolo scorso. E che quando è scoppiata la seconda guerra mondiale sta trascorrendo l’età più bella, quella dei sogni, quella in cui tutto sembra raggiungibile. E’ una storia vera, in tutta la sua durezza. Stefano ha diciotto anni quando si trova a fare una scelta drammatica nel momento in cui il regime fascista finisce senza gloria e comincia quella che molti considerano una guerra civile, ma che in realtà è una guerra di liberazione dal nemico tedesco, che occupa la nostra terra, sia pure con la connivenza di quel che rimane del vecchio regime.
La scelta di prendere le armi e combattere per liberare l’Italia dalla feroce occupazione nazista è ancora più difficile per chi come dice lo stesso Stefano, è “nato” fascista: <Fin dalla prima elementare, nel 1931, dovetti diventare Balilla, il primo gradino per diventare camicia nera: ho fatto tutta la trafila, nascondendo la divisa da un compagno di classe perché mio padre non voleva in casa “quella porcheria”, come diceva lui. L’ignoranza politica e storica nella quale ci aveva affogato il fascismo era abissale e se non avessi avuto la spinta ideale di mio padre antifascista, probabilmente sarei finito col cedere alle chiamate della repubblica di Salò, che esisteva solo sulla carta, in quanto i nazisti avevano pieni poteri su tutto il territorio da loro occupato>.
Stefano, che nel frattempo ha preso il soprannome di “Nino”, si appresta così a vivere quella lunga stagione infernale con la fame, il freddo, le sofferenze e i continui pericoli di una guerra senza quartiere, condotta sui monti contro un nemico potente, organizzato, feroce, che ha solo un nome: Resistenza. Ed entra nella Divisione Cichero, formazione partigiana operativa nell’entroterra di Genova e della riviera di levante. <In montagna, racconta Nino, c’erano formazioni partigiane di orientamento diverso. C’erano i garibaldini, i badogliani, gli autonomi, Giustizia e Libertà e tanti altri. Ma eravamo tutti uguali nella sostanza, nel senso che combattevamo tutti nel Corpo Volontari della Libertà, ufficialmente riconosciuto dal legittimo governo italiano di Roma come parte integrante dell’Esercito italiano, contro lo stesso nemico e con lo stesso fine, che era la liberazione dall’occupazione tedesca e la libertà per gli italiani. Quella libertà della quale oggi tutti godono e talvolta abusano senza rendersene conto perché l’hanno sempre avuta>.
E si arriva all’inverno del 1944, che i meteorologi sostengono essere uno dei più freddi a memoria d’uomo. In una sola notte cade più di un metro di neve. <Mentre i tedeschi ci braccavano sui monti, sono arrivato al punto di rovesciarmi le tasche per cercare qualche briciola di pane e mangiarle a una a una, separandole da quel poco di tabacco che era rimasto, ormai polverizzato. La notte di Natale ero di guardia sul Monte Maggiorasca, in Val d’Aveto. Ero solo. In quella situazione e in quelle condizioni morali e climatiche ti assale una malinconia deprimente e una nostalgia insopprimibile. Il gran freddo ti toglie anche la voglia di rilassarti e forse è meglio così, perché ti impedisce di assopirti e congelare. Ma non ti impedisce di pensare e maledire il momento che hai deciso di andare lassù. E poi i genitori. Come fai a non pensare a loro? Saranno ancora vivi? E dove saranno? Che freddo! Veniva da piangere! Poi il cambio della guardia, l’abbraccio con il compagno, che poteva sempre essere l’ultimo, il ritorno alla base: una vecchia cascina, un casone abbandonato o una stalla puzzolente ma tiepida, fra buoi e mucche>.
Poi arriva la primavera e, dopo tanta sofferenza, la sospirata vittoria. E “Nino” ritorna Stefano. Ritrova la famiglia, e con sua grande sorpresa scopre che anche i suoi genitori hanno partecipato alla Resistenza, in modi diversi, ma soprattutto all’insaputa l’uno dell’altro, perché la prudenza era un segno di rispetto per sé stessi e per chi viveva accanto. E riprende la vita di tutti i giorni come molti suoi compagni, mentre altrettanti non sono più tornati. Ma a parecchi anni di distanza ha quasi l’impressione che gran parte dei suoi sacrifici siano stati inutili o quasi. Di quell’epopea non c’è memoria, la scuola ignora la storia del Novecento, tanto che un nipotino un giorno gli chiede: “Nonno, chi erano i partigiani?”. Ecco, a quel punto il nostro Stefano, che nel frattempo è “ritornato” Stefano Porcu’, ha concluso la sua lunga attività di giornalista all’Unità, decide di raccontare la sua storia in un libro, che intitola proprio con quella domanda e dal quale ho ricavato queste testimonianze. Il sottotitolo “Nino”: balilla, avanguardista, partigiano, spiega in sintesi la metamorfosi del bruco diventato farfalla. Nella seconda pagina di copertina il suo messaggio: <In un momento in cui i giovani appaiono tanto assenti e disinteressati, indifferenti, sempre più lontani dagli avvenimenti, isolati e privi di una solida spinta ideale, sento il dovere civile e morale di ricordare. E raccontare quella che è stata la mia storia: la vita di quegli anni d’inferno, la guerra e la fame e il freddo. Il racconto di un ragazzo di quei tempi per colmare un vuoto nelle giovani menti troppo spesso immerse nell’eterno presente dei videogiochi e delle discoteche, raramente interessate alle vicende della Storia>.
Grazie Stefano, a nome di tutti noi, anche per l’amicizia che ha unito le nostre famiglie.