di Marco Francalanci
L’ inverno del 1944 a Genova, che precede di pochi mesi la Liberazione, è contrassegnato da una serie di stragi che si spiegano solo con la disperazione degli occupanti nazisti e dei loro alleati repubblichini, che vedono ogni giorno diminuire il loro controllo sul territorio e tentano di riconquistarlo con l’efferatezza di rappresaglie sempre più violente per frenare il crescente sentimento popolare per la Resistenza. I partigiani non sono più solo sulle montagne, ma le loro operazioni si moltiplicano, soprattutto nel capoluogo. Ed è proprio per vendicare l’uccisione di alcune spie fasciste da parte dei partigiani, che si compie la prima delle numerose stragi di quel freddo inverno del ’44, che sarà tramandata come l’eccidio dell’Olivetta di Portofino.
Siamo ancora nei primissimi giorni di dicembre quando scatta la vendetta per la cosiddetta “notte delle spie”, quando le Squadre di Azione Patriottica giustiziano nove collaborazionisti, la cui testimonianza era risultata decisiva per la condanna a morte di tre loro compagni. La rappresaglia nazifascista comincia con il prelevamento di ventidue detenuti dal carcere di Marassi. Poco importa che fra loro ci siano anche prigionieri non “politici”: finiscono tutti al castello di San Giorgio a Portofino e sottoposti a tortura per due giorni. Poi, nella notte fra il 2 e il 3 dicembre vengono trascinati sulla spiaggia dell’Olivetta, fucilati, legati con filo spinato e gettati in mare da un barcone per palombari dopo che i loro corpi sono stati zavorrati, nella convinzione che la strage possa non essere scoperta. Questo, contrariamente a quanto avviene abitualmente, con i corpi delle vittime ostentati in modo che possano servire da tragico monito.La Casa dello Studente, luogo di tortura, in una foto d’epoca della collezione di Stefano Finauri
Ormai l’unico obiettivo del potere è quello di seminare il terrore in tutte le zone della città, nella speranza che la popolazione non appoggi la Resistenza. Non ha altra spiegazione la cosiddetta “strage del panino e della mela” che si registra nelle prime settimane del nuovo anno. Nel giro di pochi giorni, in varie delegazioni, Sestri Ponente, Borzoli, ma soprattutto San Fruttuoso e Marassi, vengono trovati per strada i corpi di tredici partigiani uccisi. Ognuno di loro in tasca ha un panino e una mela. La spiegazione è che si tratta di persone sottoposte a severi interrogatori (la maggior parte dei corpi giace nelle vicinanze della Casa dello Studente, trasformata dalle SS in luogo di tortura) alle quali vengono poi consegnati un panino e una mela. Fatti salire su un camioncino, un colpo di pistola alla nuca mette fine alla loro vita e il loro corpo viene abbandonato in mezzo alla strada. E il panino e la mela restano come tragico simbolo di questa stagione di terrore.
Si arriva così alla mattina del 14 gennaio, quando otto partigiani vengono passati per le armi nel piazzale antistante il Forte di San Martino, come rappresaglia per l’attentato compiuto la sera prima in via XX Settembre da una squadra dei Gap (Gruppi di Azione Patriottica) ai danni di due ufficiali tedeschi. Un episodio che rappresenta un ulteriore salto nella guerra civile. Tra le vittime non figurano soltanto partigiani combattenti, ma anche rappresentanti del movimento operaio clandestino che da mesi blocca il lavoro nelle fabbriche del Ponente genovese, così come nelle altre città del Nord. A questo si è giunti per il crescendo della guerra civile, con l’esasperazione dei lavoratori ai quali non è rimasta nessuna forma di protesta dopo l’editto del prefetto Carlo Emanuele Basile, che aveva fatto affiggere un manifesto diretto ai lavoratori con su scritto: < Sia che incrociate le braccia per poche ore, sia che disertiate il lavoro, alcuni di voi saranno estratti a sorteggio e inviati nei campi di concentramento a meditare sul danno arrecato alla causa della vittoria della nostra Patria, disonorata dal tradimento di pochi indegni>.
Quella mattina, nel cortile del Forte di San Martino, ci sono otto uomini in catene. Sono un professore, un tipografo, uno straccivendolo, un tranviere, un giornalaio, un elettricista, un oste e un operaio, certamente estranei all’attentato in quanto in carcere già da qualche giorno. Davanti a loro il plotone di esecuzione, formato da carabinieri della Legione di Genova, guidati dal tenente Giuseppe Avezzano Comes, ma quando il colonnello della milizia fascista ordina il “fuoco”, i militari alzano le canne dei fucili verso il cielo. Il tenente viene disarmato, torturato a sua volta e poi rinchiuso nella casamatta del forte. SS e guardie repubblichine sistemano allora i condannati in fila per due e li giustiziano, costringendoli a salire sui corpi dei loro compagni ancora in agonia.
Ma non sempre i nazifascisti hanno bisogno di spiegare i loro massacri con una rappresaglia. E’ il caso dell’eccidio del Forte del Castellaccio al Righi, all’alba del primo febbraio, quasi a sigillare il mese di sangue innocente fatto scorrere a Genova. Il 29 gennaio infatti il tribunale militare straordinario, insediato a Palazzo Ducale, sentenzia la condanna a morte di sei prigionieri, presenti nelle carceri di Marassi, per una serie di accuse pretestuose e fissa per il 1° febbraio la data dell’esecuzione.
Quella mattina all’alba le Brigate Nere prelevano i prigionieri dal carcere e si indirizzano verso il Castellaccio, ma, complice la nebbia, si perdono per strada e non riescono a trovare l’ingresso. Furibondi, decidono di compiere l’esecuzione all’esterno, su un prato nei pressi del ponte levatoio. Fanno irruzione nel vicino convento delle Suore Crocifisse e prelevano delle sedie alle quali legare i detenuti per la fucilazione.
In città è l’ultima strage prima della Liberazione, mentre la guerra civile segna altre rappresaglie a Borzonasca, Calvari, a Teglia, in Val Polcevera, Sestri Levante e Cravasco, dove il paese viene saccheggiato e dato in parte alle fiamme. Per questi massacri nessuno è mai stato punito.