C’è un tema di grande attualità che mi fa ripensare a quanto cambi la percezione degli avvenimenti. Oggi c’è un gran parlare di “delatori” e di “spie” quando qualcuno fa il suo dovere e segnala qualche situazione anomala nei confronti del Covid 19: assembramenti, parecchie persone senza mascherina, feste in locali pubblici o in private abitazioni. Mi sono allora venute in mente le vere spiate, le vergognose denunce di chi segnalava la presenza di famiglie ebree al governo fascista, magari dietro compenso.
Il 5 settembre 1938 era stato firmato da Vittorio Emanuele III il primo dei quasi duecento provvedimenti decisi dal Duce sulla scia delle analoghe decisioni prese da Hitler in Germania, che privavano gli ebrei dei diritti civili più elementari. Ma Mussolini allora rispose a chi mostrava perplessità che “chi pensava che stiamo imitando qualcun altro è un deficiente”.
Il Manifesto della difesa della razza redatto da un gruppo di docenti delle Università italiane e pubblicato il 5 agosto 1938, con le “conclusioni scientifiche” sulla diversità delle razze umane.
Alla progressiva abolizione dei diritti civili seguì negli anni una stretta sempre più soffocante nei confronti di civili di religione ebraica, per arrivare alla serie delle retate di cittadini di ogni età che venivano caricati come bestie sui treni (questi sì che partivano in orario) diretti verso i campi di concentramento del Reich. Ecco, la stragrande maggioranza di loro era stata catturata grazie a una delazione. Oltre alle varie segnalazioni anonime, infatti, in ogni condominio c’era una persona addetta a questo “servizio”, che faceva da tramite tra chi denunciava e chi poi sarebbe intervenuto, Brigate Nere o SS tedesche. Quasi la metà dei deportati è stata “venduta” dai delatori: si cercavano soprattutto ebrei adulti maschi, che erano anche i più esposti nel tentativo sostentare la famiglia, tanto che la loro cattura fruttava al denunciante circa cinquemila lire (grosso modo cinquemila euro di oggi). La segnalazione di una donna, in questo sporco mercato, fruttava invece tremila lire, mentre un bambino “valeva” 1500 lire.
Anche a Genova furono centinaia gli ebrei deportati nei campi di concentramento. Ma fu un episodio, in particolare, a sconvolgere la vita della comunità. Un paio di settimane dopo il grande rastrellamento nel quartiere ebraico di Roma del 16 ottobre 1943, che provocò la cattura di quasi duemila civili, anche a Genova partì la caccia all’ebreo. Il 2 novembre le SS irruppero nella sinagoga, costringendo il custode Bino Polacco, sotto la minaccia di uccidere i suoi figli di due e quattro anni, a convocare per il giorno successivo tutti i membri della comunità per una non meglio precisata riunione. Come se non bastasse portarono via il registro degli aderenti. Le cinquanta persone presentatesi all’indomani finirono sui treni diretti ad Auschwitz. La stessa sorte capitò a coloro che furono rintracciati grazie al registro sottratto con la forza. Tra questi, il rabbino capo di Genova, Riccardo Reuven Pacifici: non ha ancora compiuto quarant’anni, ma ricopre la carica già dal 1936.
Riccardo Reuven Pacifici
Fino all’ultimo giorno svolse un’opera fondamentale, attraverso la “delasem”, per aiutare i correligionari in difficoltà. Pacifici aveva già provveduto a trasferire i figli a Firenze, nella speranza di salvarli, quando fu catturato, il 3 novembre, nei pressi di Galleria Mazzini, finendo nelle camere a gas di Auschwitz insieme con la moglie Wanda. Sul luogo della cattura è stata sistemata una “pietra d’inciampo” a memoria di quanto accadde.
Il rabbino era il padre dello storico Emanuele Pacifici e nonno di Riccardo Pacifici, che sarebbe diventato presidente della Comunità ebraica di Roma dal 2008 al 2015. In questa veste, quest’ultimo ha accolto papi e capi di Stato in visita alla più antica comunità ebraica in Occidente. Lo scorso anno è stato insignito dal Presidente Sergio Mattarella del titolo di Commendatore della Repubblica italiana proprio in virtù di un’attività che lo ha visto in prima linea nella lotta alla xenofobia e all’antisemitismo, così come nella promozione del dialogo tra le diverse religioni.
Un’onorificenza che lo stesso Pacifici ha commentato con commozione e riconoscenza, sottolineando come il titolo rappresenti un omaggio alla memoria di suo nonno, Riccardo Reuven Pacifici, rabbino capo della Comunità ebraica di Genova catturato in Galleria Mazzini: «Fu nominato da Vittorio Emanuele III Cavaliere della Corona d’Italia – ha raccontato Pacifici – e poi, con le leggi razziste, perse i diritti civili e venne privato anche di quell’onorificenza… Infine fu prima torturato e poi trucidato ad Auschwitz». Nel caso del Rabbino capo di Genova, persino un titolo concesso dal Re d’Italia finì nella polvere, calpestato dalle leggi razziali del 1938.