di Marco Francalanci.
All’inizio del giugno 1944 la Resistenza e l’avanzata degli angloamericani creano problemi sempre crescenti all’alleanza nazifascista, che deve registrare la caduta di Roma e il minaccioso, imponente, sbarco in Normandia: molti generali dell’esercito tedesco si rendono conto che la guerra è perduta, tanto da organizzare un attentato per eliminare Hitler – ormai perso nel suo delirio – che sarebbe però fallito il successivo 20 luglio. In Italia il Comando tedesco e la Guardia Nazionale Repubblicana fascista hanno un doppio problema da risolvere: da una parte la carenza sempre più grave di manodopera nelle fabbriche tedesche, i cui operai sono ormai a combattere sui vari fronti di guerra del Reich. Dall’altra la crescente insubordinazione dei lavoratori negli stabilimenti di tutto il Nord Italia. Il comando tedesco decide di attuare quanto previsto dal generale Ernst Friedrich Sauckel, plenipotenziario per la distribuzione del lavoro su indicazione del gerarca Albert Speer. Sauckel si rende così responsabile della deportazione di cinque milioni di lavoratori stranieri provenienti da tutti i territori occupati in Europa, dirottati negli stabilimenti e nelle campagne del Reich. Al processo di Norimberga sarebbe poi stato condannato a morte per impiccagione, mentre per il suo superiore Speer la sentenza fu di soli 20 anni di carcere.
La protesta dei lavoratori, in quell’inizio di giugno, è dura soprattutto a Genova, dove si accompagna all’attività delle Sap, le Squadre di Azione Patriottica, sempre più sfrontate nel compiere attentati anche nel cuore della città. Dopo gli scioperi alla fine del 1943 in tutto il triangolo industriale, nell’inverno l’intensità delle agitazioni si accresce. Lo sciopero generale di fine novembre viene seguito da quello di metà gennaio, deciso dopo la fucilazione di otto partigiani al Forte di San Martino, rappresaglia del prefetto Basile per un attentato del gappista Giacomo Buranello. Tanto che il 29 febbraio si arriva al bando emesso dallo stesso prefetto Basile. Sui manifesti affissi in tutta la città compare il monito rivolto ai lavoratori: “Sia che incrociate le braccia per poche ore, sia che disertiate il lavoro, alcuni di voi saranno estratti a sorteggio e inviati nei campi di concentramento a meditare sul danno arrecato alla causa della vittoria della nostra Patria, disonorata dal tradimento di pochi indegni”.
Ecco allora il cambio di strategia nella repressione della conflittualità in fabbrica, con l’applicazione dell’editto di Sauckel: le consuete misure punitive sarebbero state accompagnate dal prelievo di un certo numero di scioperanti da deportare e impiegare nei lavori forzati nelle fabbriche del Reich. Ma non sono queste minacce a fermare il malcontento: il primo giugno riesplode la protesta e il 9 la situazione diventa insostenibile, tanto che il prefetto Basile dispone la serrata di alcune fabbriche fino al giorno 13. Ma poiché nelle altre gli scioperi continuano, qualche decina di operai viene prelevata e spedita in Germania. Il 14 giugno, quindi, gli stabilimenti vengono riaperti, ma ormai la decisione finale è presa: contro gli operai genovesi devono essere messe in atto misure eccezionali. E così si arriva al rastrellamento di venerdì 16 giugno.
Poco dopo le tredici, unità militari tedesche e squadre delle SS, con il supporto di plotoni della Guardia Nazionale Repubblicana ed elementi della squadra politica della questura guidati dal commissario Giusto Veneziani, circondano i principali stabilimenti genovesi. Gli operai vengono radunati nei piazzali della San Giorgio, della SIAC, del cantiere navale Ansaldo di Sestri Ponente e della Piaggio: i quasi duemila lavoratori, compresi gli addetti di ditte esterne che in quel momento si trovano a lavorare dentro le officine vengono sottoposti alla selezione che segue ogni rastrellamento (partigiani combattenti uccisi subito o inviati in campo di concentramento, fiancheggiatori al lavoro forzato in Germania, renitenti ai bandi di arruolamento nell’esercito repubblichino a lavorare oltre il Brennero). Dopo la lunga procedura di identificazione nei cortili delle fabbriche, i lavoratori vengono suddivisi in gruppi e trasferiti in bus o in camion nei parchi ferroviari del Campasso e di Campi, tranne quelli della SIAC, che sono direttamente caricati sui vagoni, all’interno dello stabilimento.
Si formano così due treni per quarantatré vagoni complessivi, che partono a poca distanza l’uno dall’altro alla volta di Mauthausen. Gli operai raggiungeranno l’Austria e gli altri campi di lavoro in Germania dopo essere partiti con i soli abiti che portavano al momento del rastrellamento: tute da lavoro, magliette estive, quasi tutti con i sandali, con i quali hanno dovuto affrontare il rigido inverno prima della Liberazione. Molti di loro non torneranno, e chi lo farà racconterà di terribili esperienze, il cui ricordo vive nel “Gruppo 16 giugno 1944”, associazione costituita alla fine del 1945 dai lavoratori genovesi ex deportati nei territori del Terzo Reich. Che si presentano così: “Noi ex deportati del 16 giugno 1944 non abbiamo gesta eroiche da raccontare, abbiamo solo scioperato contro la guerra e la dittatura, adulti e giovani con la prima barba, accomunati nella protesta e poi, come accadrà alla maggior parte di noi durante la deportazione, accomunati nella fame, nel freddo, nel lavoro gravoso, talvolta dalle botte ricevute senza pietà, mentre eravamo infestati dai pidocchi, storditi dal dolore fisico e da quello dell’animo, altrettanto maltrattato e offeso”.