di Marco Francalanci
Se la rimozione è un meccanismo difensivo che ci protegge dal ricordare avvenimenti dolorosi della nostra vita, questo processo psicoanalitico ha permesso a Lodovico Portesine, ultimo alpino genovese sopravvissuto alla tragedia dell’Armir, di mettere in un angolo per decenni la tragica esperienza vissuta negli anni della guerra. E resta un mistero sul come sia maturata la sua decisione di raccontare, quando aveva oltre novant’anni, e dopo settanta di silenzio assoluto, come per più volte abbia creduto di essere morto. Prima di allora, in famiglia aveva detto soltanto: «Sì, sono stato in Russia, faceva tanto freddo». Nient’altro.
Racconta il figlio Paolo: «Durante una manifestazione dell’Associazione Nazionale Alpini, un giornalista ha conosciuto mio padre, che come sempre aveva solo detto di essere stato in Russia, e poi prigioniero. Evidentemente incuriosito, il giornalista, dopo una breve ricerca, ha scoperto che mio padre era stato decorato per aver salvato diversi commilitoni. Uscì un articolo, e poi molti altri, seguiti da interviste in tv, prima su Canale 5, poi sulle reti Rai, ma sempre senza entrare in una vera narrazione. Tutto si risolveva sempre con le solite tre frasi “Sono stato in Albania, congelato, poi in Russia, quello che ho fatto non ha importanza, lo avrebbe fatto chiunque”. E così sono passati sette, forse otto anni, durante i quali, in privato, quando io gli chiedevo qualcosa di più, lui scivolava via, dicendomi che nessun racconto, per quanto dettagliato, avrebbe potuto solo avvicinare l’ascoltatore a quello che aveva vissuto. Che lui stesso certe volte lo ricordava come un sogno, o meglio un incubo, e spesso si chiedeva se davvero lo avesse vissuto».
Quando c’è stata la svolta?
«Nel 2018, l’estate dei suoi 100 anni, nell’aia della cascina in Piemonte dove è nato e dove ha fatto il contadino fino alla partenza per il militare. C’era la festa del patrono del paese, con parenti e amici che passavano a trovarlo. Tutti avevano domande su lontani conoscenti che solo la sua formidabile memoria poteva far ricordare. All’indomani gli ho detto che, vista la sua generosità nell’elargire racconti a chiunque, io volevo assolutamente sapere tutto quello che gli era successo durante la guerra, prima che la memoria se ne andasse, o peggio se ne andasse lui. Con la promessa che, se non me ne avesse dato il permesso, sarebbe rimasta una cosa tra noi due. Così ho preso un taccuino, ci siamo messi sotto un albero, e lentamente ha aperto, dopo ottanta anni, il quaderno scritto nella sua mente. Aveva tutto inciso dentro, con precisione, dovizia di particolari, e grande sofferenza. All’ombra di quell’albero lui ha rivissuto tutto, dalla partenza, a piedi, verso il treno che lo portava al suo primo giorno di militare, fino al giorno in cui ha fatto ritorno, inaspettato, e si è trovato di fronte la madre, nella stessa aia in cui mi stava raccontando».
I ricordi partono proprio dal giorno della partenza per la leva, (“Mi piace l’idea di fare qualcosa di diverso, conoscere nuove persone, indossare una divisa che spero attiri qualche ragazza, non immagino certo che l’uniforme diventerà l’inseparabile compagna di tutta la mia giovinezza, la mia seconda pelle, la prigione grigioverde dalla quale uscirò quasi sette anni dopo”). La realtà infatti sarà ben diversa. Passa il primo anno di militare tra marce (molte e sfiancanti) e addestramento vero e proprio (poco e approssimativo). In caserma tutti temono quello che puntualmente poi accade. Mussolini decide di “andare a sistemare l’Albania”, in quella campagna dei Balcani che avrebbe segnato l’inizio della sua fine. E comincia l’incubo: “La sera della vigilia di Natale del 1940 guadiamo un grosso torrente, acqua gelida alla cintura che ti anestetizza le gambe e fucile sopra la testa, ma raggiunta la riva opposta, non si possono accendere fuochi per non farsi avvistare dal nemico. E subito dopo comincia a nevicare”.
È solo l’inizio: verranno travolti da una valanga per l’ostinazione di un graduato, deciso a superare un passo di montagna nonostante le condizioni proibitive del tempo, e successivamente, dopo settimane di combattimenti, riusciranno ad espugnare una postazione nemica. Restano quattro giorni a tenere la collina conquistata, senza cibo né fuoco per scaldarsi, e solo il quinto giorno arriva l’ordine di ritirarsi, perché non ci sono forze e armi adeguate per mantenerla. Strategia folle, tante giovani vite sacrificate per nulla. E allora una lunga marcia sotto la neve, prima di arrivare all’ospedale in valle, dove gli dicono che rischia l’amputazione dei piedi, congelati, un’operazione che potrebbe anche costargli la vita. Ma non basta, perché l’ospedale, la sera stessa, viene bombardato. Riportato in Italia, grazie a un bravo medico l’amputazione viene risparmiata e dopo due mesi d’ospedale Lodovico può tornare in caserma, sulle Alpi Marittime.
Dura poco la sua lontananza dal fronte, perché presto comincia la campagna di Russia, la sconsiderata avventura militare con la quale Mussolini decide di andare in aiuto a Hitler nell’Operazione Barbarossa. Ma è un’invasione alla Ridolini, se non fosse una tragedia, perché viene organizzata con mezzi e attrezzature assolutamente inadeguate, basti pensare che dopo il trasporto in treno fino al confine tra Polonia e Ucraina non ci sono altri mezzi meccanici a disposizione. Quindi tutti in marcia, nel breve ma intenso caldo estivo della pianura russa, per oltre trenta chilometri al giorno, con uno zaino da quaranta chili sulle spalle, per un mese. Mille chilometri a piedi attraversando paesi devastati dalle fiamme e popolati solo da contadini che penzolano dagli alberi, impiccati dalla Wehrmacht che ha preceduto gli italiani. Una marcia infinita prima verso il Caucaso, poi deviata sulla prima linea del Don, dove i soldati arrivano poco prima dell’inizio dell’autunno.
Prima che il terreno geli lavoreranno mesi per scavare trincee e camminamenti, poi arriva l’inverno, rigidissimo. Sull’altra riva del fiume, ormai ghiacciato, ci sono i russi, attrezzati e ben organizzati. Racconta Lodovico al figlio: «I turni di guardia durano quaranta minuti, perché a trenta sottozero non si resiste di più. C’è una bella luna, è quasi la fine del mio turno, aspetto il cambio muovendo qualche goffo passo avanti e indietro, per non gelare, poi decido di dare l’ultima occhiata più attenta alle linee russe. Mi sporgo un po’ di più, allungo il collo e alzo il naso verso il cielo, per far sì che la falda del mio cappello da alpino non mi impedisca la vista. Mentre trattengo il fiato e stringo gli occhi, sento un colpo. Un fischio secco e subito ho freddo alla testa. Il cappello è volato via. Mi butto a terra e lo vedo pochi metri dietro di me, lo raccolgo, ha un foro davanti proprio sopra l’aquila, lo stemma degli alpini, e uno dietro, di uscita, poco più in alto. Il proiettile è passato a non più di un centimetro dalla mia testa, che vuol dire che sarebbe bastato meno di un niente di differenza verso il basso nel puntare il fucile e il cappello sarebbe rimasto al suo posto, anche se insanguinato. Grazie cecchino, forse mentre premevi il grilletto hai fatto un impercettibile respiro».
All’inizio del 1943 il Generale Inverno fa il suo lavoro: la temperatura è di 35 sottozero. Dopo mesi di guerra di posizione, qualcosa si muove, ma solo troppo tardi gli alpini scoprono che i russi hanno sfondato le nostre linee in altri punti rispetto al loro fronte: “Nessuno sospetta che il nostro stato maggiore, obbedendo a quello tedesco, ci ha avvisati volutamente diversi giorni dopo dell’avanzata delle truppe sovietiche. Siamo gli inconsapevoli pezzi di carne lasciati indietro apposta per saziare e non far correre troppo i levrieri russi. Dopo un’ora ci incolonniamo silenziosi, abbiamo due caricatori e una razione di cibo a testa. Camminiamo tutta la notte, e quando la luce dell’alba si fa lentamente largo nel cielo uniforme di neve, mi rendo conto della nostra situazione. Siamo una cupa colonna di disperati, una virgola scura che macchia la pianura candida”.
È a questo punto che nella tragica ritirata dell’Armir, l’alpino Portesine ha il suo momento di gloria, non cercata e non voluta, che gli varrà la medaglia al valore tenuta per anni nel cassetto. Lui la racconta come se fosse oggi. «Siamo circondati, davanti a noi ci sono decine di carri armati e per rispondere al fuoco abbiamo solo i nostri fucili congelati, i carri ci schiacciano come se fossimo formiche. Ricordo quando cado a terra riverso, il frastuono del carro che avanza è a un metro da me e penso che la morte non sia poi così brutta. Proprio in quel momento con un colpo si schianta un cingolo del bestione; la marcia del carro si ferma ma la sua mitragliatrice continua a seminare morte tra i miei compagni. Il mostro spara senza sosta, io provo a scuotere il soldato su cui ho inciampato, il gelo e la morte lo hanno già irrigidito, e gli manca un braccio, volato chissà dove. Una morsa mi stringe la gola, salto in piedi, piango e urlo di rabbia e di follia, trovo una sbarra di ferro e salgo di lato sopra il carro armato. Sono a fianco della torretta e sotto di me la mitragliatrice continua il suo concerto, vedo i miei compagni fuggire o cadere impotenti davanti a me, non capisco più nulla, grido a squarciagola, con le lacrime agli occhi inizio a colpire la canna della mitragliatrice, le mani mi sanguinano, ma io non sono io, sono un pezzo di carne affamata e infreddolita che colpisce furiosamente la falce della morte, sono l’uomo primitivo che si accanisce sulla bestia a terra. La canna della mitragliatrice si piega, non può più sparare, urlo maledizioni e pianto la mia clava dentro la bocca del cannone. Poi riprendo lucidità, salto giù e corro non so dove, finché vedo una grossa buca nel terreno, poco più avanti. Quando sono a un metro ci salto dentro, alla cieca. Atterro su una massa morbida, che al mio arrivo sacramenta per lo spavento e il dolore. Sono una decina di alpini come me, che hanno avuto la mia stessa idea prima di me”.
Quando il fragore della battaglia si allontana, gli alpini escono dalla buca. Se esiste l’inferno, certamente assomiglia a quello che li circonda. Migliaia di corpi senza vita, smembrati dai proiettili o peggio dai cingoli dei carri. I sopravvissuti, o meglio chi ce la fa, riprende la marcia, che dura giorni e notti, a trenta sottozero, senza cibo, una lunga fila di disperati che ogni giorno si assottiglia: duecento chilometri percorsi a una media di undici ore di cammino al giorno, prima che quel che resta della Divisione Cuneense, dopo diversi combattimenti, venga circondata e costretta alla resa dall’esercito russo. Dopo la bandiera bianca parte la seconda tappa della marcia, chiamata tristemente del “Davai”, urlato continuamente dai soldati russi che li scortano. (“I russi ci incolonnano per riportarci indietro, da dove siamo venuti. Chi rallenta, chi barcolla, chi solo geme troppo viene ucciso all’istante e lasciato sulla neve. A tratti, ripercorrendo i luoghi della nostra ritirata, ritroviamo con orrore quello che ci siamo lasciati alle spalle. Attraversiamo a capo chino la lunga scia di corpi nella neve dei nostri compagni, la nostra Pompei di ghiaccio. Siamo fantasmi tra fantasmi”).
Le migliaia di prigionieri arrivano dopo giorni e giorni a un capannone, dal quale saranno poi caricati su un treno: ottanta su ogni vagone, una lunga fila di carri bestiame che attraversa la steppa ghiacciata e si ferma solo quando i russi devono riempire d’acqua i serbatoi della locomotiva a vapore. Solo allora aprono il portellone per scaricare quelli che nel frattempo non ce l’hanno fatta, niente cibo o acqua, solo lamenti sempre più fiochi, pidocchi ovunque, odore di cancrena e di morte. Quando il treno arriva al campo di prigionia, dopo oltre un mese, degli ottanta soldati caricati sul vagone insieme a Lodovico, ne scendono sette. Vengono rasati a zero su tutto il corpo, per eliminare i pidocchi, e poi pesati. Lui è 32 chili.
“La prigionia nei durissimi lager sovietici durerà più di due anni e mezzo, durante i quali in Italia sono dichiarato disperso, un modo meno duro per dire morto. Invece, non so come, riuscirò a sopravvivere anche a questo, almeno all’apparenza. Della mia divisione tornerà in Italia un giovane contadino su tredici. Vedrò mia madre piangere il 29 Ottobre del 45, nell’aia della nostra cascina.”
Lodovico però ai suoi non racconta niente, dice solo che ha sofferto il freddo, ma qualcuno di quelli che hanno avuto salva la vita non ha dimenticato e racconta il suo atto di eroismo: “La mia pazzia sopra il carro armato l’hanno vista in molti, e hanno detto che il mio gesto ha salvato tante vite, così alla fine della guerra mi hanno chiamato, sono andato in un grande piazzale, hanno issato la bandiera tricolore, una tromba ha suonato, mi hanno consegnato un attestato pieno di belle parole. Poi mi hanno appuntato al petto una medaglia col mio nome, e una croce al merito accanto. Ma ho seppellito tutto in un cassetto, per più di settant’anni: volevo dimenticare, nascondere quel ventenne che non mi pare possibile possa essere stato io”.
Così finisce il racconto, ma il figlio Paolo, attore, vuole che si conosca l’orrore al quale può portare una guerra. Allora lo trasforma in un testo teatrale: “La guerra non mia”, dal quale sono tratti i testi in corsivo. Così più volte sale con lui sul palcoscenico, ma poi viene bloccato dalla pandemia. Allora, per conservarne memoria, ne registra il video (su Youtube già migliaia di visualizzazioni): lui con un leggìo, il padre, 104 anni, seduto accanto su una sedia, a guardare con gli occhi lucidi gli spettatori, sapendo che nessuno di loro può davvero immaginare quello che ha vissuto, e dentro sorride perché è felice per questo.