di Marco Francalanci
La strage nazifascista che più si avvicina a quella delle Fosse Ardeatine a Roma si compie il 19 maggio 1944 sui prati della Fontana Fredda, sul Turchino, tra i comuni di Mele e Campoligure. Un accostamento che, oltre alla crudeltà dell’esecuzione, è dovuto all’assoluta mancanza di pietà nei confronti dei familiari delle vittime, lasciate per giorni nell’angosciosa attesa del ritorno dei loro congiunti fino alla tragica scoperta. Il massacro viene “giustificato” dagli occupanti come rappresaglia per l’attentato che quattro giorni prima ha devastato il cinema Odeon, in via Ettore Vernazza, a pochi passi da piazza De Ferrari, avvenuto in un clima sempre più incandescente, con i partigiani sempre più spavaldi a compiere attacchi contro i nazifascisti, sempre più condizionati da una sindrome da accerchiamento. Il cinema aveva preso il nome di “Soldaten-kino”, perché riservato proprio ai militari tedeschi. Ma un componente dei Gruppi di Azione Partigiana, biondo, occhi azzurri, con indosso una divisa da tenente tedesco, non aveva avuto problemi a entrare nel locale, nel quale aveva sistemato una carica esplosiva. Uscito con tutta calma, dopo aver innescato la miccia, aveva fatto in tempo a sentire il boato dell’esplosione che aveva provocato la morte di cinque militari e il ferimento di altri dodici.
Immediata la reazione: il Comando tedesco offre tre milioni di lire a chi fornisce notizie su quanto è avvenuto, ma poiché nessuno si presenta, decide di applicare il “bando Kesselring”, di vendicare cioè ogni tedesco ucciso con la morte di dieci prigionieri. Tra IV sezione del carcere di Marassi e Casa dello Studente vengono prelevati 42 prigionieri in attesa di giudizio, ma il prefetto Basile decide di aggiungere altri 17 partigiani che erano scampati al precedente massacro della Benedicta, poche settimane prima. Ed è a questo punto che, per le sue modalità ed efferatezza, la strage comincia ad assomigliare sempre più a quella delle Fosse Ardeatine.
Per evitare una possibile immediata reazione popolare, si sceglie quindi una località molto isolata. Il giorno precedente un gruppo di prigionieri ebrei viene mandato a scavare una grande fossa semicircolare nella zona della Cannellona, mentre i soldati tedeschi tengono a distanza i contadini incuriositi da tanto movimento. La mattina successiva, in una bellissima alba primaverile, i prigionieri, a gruppi di sei, vengono fatti salire su una passerella fatta di lunghe assi che attraversano la fossa e abbattuti a colpi di mitra. A distanza di qualche ora, i familiari dei partigiani uccisi si presentano al carcere di Marassi per incontrarli e portare generi di conforto, ma viene detto loro che sono stati trasferiti, senza altre spiegazioni. Il giorno successivo sulla stampa cittadina viene annunciato che “cinquantanove individui sono stati condannati a morte e fucilati a titolo di rappresaglia per il vile e criminoso attentato al Cinema Odeon contro le Forze Armate Germaniche in Genova”, mentendo fra l’altro sul fatto che siano stati condannati dopo un regolare processo.
In questa atmosfera di tragica attesa i familiari dei prigionieri continuano a temere il peggio, ma a non ricevere alcuna informazione dal carcere, fino a quando, un paio di giorni più tardi, operai delle fabbriche provenienti dalla zona dell’eccidio raccontano delle voci che si rincorrono su quanto è accaduto. Allora comincia la disperata corsa verso la vallata. Chi scende alla stazione di Campoligure, chi a Mele, ma tutti diretti verso la Fontana Fredda. Ci sono le madri di Pietro Cavallo, di Isidoro Pestarino, di Valerio Bavassano, che è giunta con la figlia, e tanti altri. Giunti nella zona approssimativamente indicata, cercano disperatamente tra i cespugli un indizio che li possa aiutare, fino a quando trovano una zona con la terra apparentemente smossa da poco tempo. E allora cominciamo a scavare affannosamente, con le mani nude e con dei pezzi di legno trovati sul posto, fino a quando le punte di quelle rudimentali pale cominciano a tingersi di rosso. Ogni speranza di riabbracciare i loro cari cade tragicamente.
Per questa strage, così come per quella della Benedicta, di Portofino e di Cravasco, nelle quali vengono giustiziate 246 persone, il capo delle SS Siegfried Engel, soprannominato “il boia di Genova”, viene condannato all’ergastolo nel 1999, ma mai estradato in Italia. Tre anni più tardi, ad Amburgo, è condannato a sette anni di prigione per crimini di guerra, ma ormai novantatreenne, non li sconta a causa dell’età avanzata. Infine muore nel 2006, a 97 anni, senza aver trascorso un giorno in carcere.
Sul luogo della strage, lungo la strada provinciale 73 del Passo del Faiallo, è stato costruito un monumento commemorativo, mentre ai Martiri del Turchino è dedicato il nuovo tunnel, aperto nel 2013. Presso il sacrario, ogni anno il Comitato Permanente della Resistenza di Genova celebra una commemorazione, mentre proprio poche settimane fa, in occasione della celebrazione del 25 aprile, alcuni vandali hanno disegnato una svastica sulla lapide, subito rimossa, che ricorda i 59 martiri. La pietà è morta e per molti non ancora resuscitata.
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